Nessun uomo è un’isola
Immersi nell’epoca della comunicazione veloce e della socialità necessaria, sperimentiamo condizioni di grande solitudine e fragilità. I legami sono liquidi, tutto si consuma brevemente e se il desiderio di un’umanità più autentica si affaccia, appare troppo ardua l’impresa di cominciare a segnarne il passo. Sentirci parte dell’universo, condividere paure e obiettivi, fare fronte comune alle ingiustizie e alle difficoltà lenirebbe quel senso di straniamento e impotenza che spesso si cela dietro la messa in scena di un io solido e performante, perché “nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto” (John Donne, Meditazione XVII in Devotions Upon Emergent Occasions, 1624, traduzione italiana in Devozioni per occasioni d’emergenza, Editori Riuniti, Roma, 1995). Il cuore dell’Europa è dilaniato da una guerra che ricorda un passato creduto morto per sempre. Come non sentire su di sé il dolore di chi combatte la paura, la fame e la morte? Come non sentire propria la devastazione di un popolo che difende con la vita la propria terra dal momento che “se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa”?